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La scrittura poetica
di Michele Borrelli, offerta per la prima volta al
pubblico, viene qualificandosi entro un giro tonale che
trae origine e significazione (l'enunciato
specifico di ciò che il segno lirico partorisce) da
quella che, da un lato, realizza "apparentemente" la
conclusione materica dell'esistenza
(la morte, variamente appellata), mentre, dall'altro,
proprio la finitezza del "percettibile" trasmette l'immissione
dell'Io in un tempo e in uno
spazio che addensano nella veglia della ragione
il suono e l'eco di un canto
ipertroficamente liturgico. Una sacralità cioè del
poetare che vive e si muove tra la recettività
gnoseologica tutta tesa a dare testimonianza della
severità delle tappe che raggiunge o che non vorrebbe
raggiungere e, assieme, sostante nell'azione
di amalgamare nell'oltre,
indistinto e pur presente, per paradossale che possa
sembrare, il logos in una esplosione vibrante e
sagacemente intuitiva, mentre esso, al contempo, viene
spronato a "dire" ciò che il soggetto avverte
nella "spogliazione serale" dell'anima
operata (resa attiva) dal poeta e da ciò che
quest'ultimo le ricorda. E il
verso contempla le stanchezze del peso dei pensieri e l'orrore
di un male il cui enunciato si mescola con quello
di bene: da qui la rêverie della reminiscenza e
la sua evocazione creano osmosi repentina della parola,
che si muove tra l'attuale
e l'attualità (wirklich-wirklichkeit).
E nell'intercapedine temporale
generata dalle esperienze delle fasi diacroniche della
storia dell'individuo e degli
individui, il suicidio di Dio va a sostituire l'omicidio
operato dall'ente, e i
"valori" pur stravolti sembrano rimanere disorientati
dalla perplessità di porre obiezioni al vissuto.
Michele Borrelli, ordinario di Pedagogia Generale presso
l'Università degli Studi della Calabria, ha insegnato
nelle università tedesche di Giessen, Francoforte,
Norimberga e Wuppertal. È presidente del Centro
Filosofico Internazionale Karl-Otto Apel.
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